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Commento al Vangelo del 11 maggio 2025

Commento al Vangelo del 11 maggio 2025

Alle mie pecore io do la vita eterna.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10,27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Parola del Signore.

Degni della vita eterna

Roberto Pasolini

La domenica del “buon Pastore” è per la comunità dei credenti un tempo intermedio tra la festa di Pasqua e quella di Pentecoste, nel quale è necessario verificare in che modo il mistero della risurrezione del Signore Gesù si sta diffondendo «per tutta la regione» (At 13,49) della nostra vita e del corpo ecclesiale in cui siamo innestati attraverso il battesimo.
A partire dalla grande gioia della risurrezione, per i primi apostoli è stato un istinto piuttosto naturale quello di tentare un primo, appassionato annuncio del vangelo ai fratelli a cui erano legati dalla comune fede nel Dio di Israele. Eppure, l’autore degli Atti dichiara apertamente il sorgere di una crescente ostilità verso l’annuncio del Regno proprio da parte di coloro che erano più qualificati e preparati a poterlo accogliere:

«Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo» (At 13,45).

Anziché chiudersi o ostinarsi di fronte a questo reiterato rifiuto da parte di quei Giudei che restano impermeabili al vangelo di Cristo, i testimoni del Risorto si sono aperti a una lettura profonda della realtà. Alla luce della Pasqua, hanno saputo cogliere dentro un fallimento l’opportunità di entrare in uno scenario ancora più grande, nel quale Dio può continuare a operare salvezza:

«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani» (At 13,46).

La grande visione di «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare» (Ap 7,9), nel santuario del cielo a cui accede il veggente di Patmos, sembra incarnare questa grande libertà interiore sperimentata nella primitiva chiesa. I risorti in Cristo che hanno passato «la grande tribolazione» in questo mondo e hanno imparato a lavare «le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello» (7,14) vengono descritti nel libro dell’Apocalisse in un atteggiamento di grande fierezza e di gioiosa dignità:

«Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani» (Ap 7,9).

La tribolazione attraverso cui i redenti sono passati non va immaginata necessariamente come un percorso di martirio cruento, ma come l’esperienza di scoprirsi capaci di andare oltre il vittimismo per aprirsi al conforto di colui che — con la sua vita e con la sua morte — sa guidare tutti «alle fonti delle acque della vita» (7,17). Quella «lacrima», che così facilmente riesce a percorrere all’improvviso il nostro volto e a irrigare i deserti della nostra anima, sarà per sempre asciugata perché un giorno, finalmente, non esiteremo più a essere — non solo a dirci — figli di Dio. I redenti sono raffigurati «in piedi» e non prostrati, in questa domenica, per ravvivare in noi la speranza di poterci rialzare da ogni sconfitta e da ogni tristezza, porgendo l’orecchio lontano dalla voce dei sensi di colpa, verso quella del pastore buono.

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10,27).

Sembra assolutamente sicuro di sé e di noi Gesù, nel pronunciare queste parole, con una leggerezza che consola e accarezza il nostro incedere spesso incerto e faticoso. Eppure questo sguardo incantato è la luce che, in attesa della Pentecoste, anche noi dobbiamo abituarci ad accogliere e a gustare. Riconoscere e preferire la voce del Figlio non vuol dire altro che rimanere, dolcemente, aggrappati alla sua testimonianza, in grado di dirci quello che siamo e restiamo di fronte a Dio, al di là di qualsiasi fallimento:

«Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10,28).

Il mistero pasquale è un dono che colloca la nostra vita nel palmo di una mano sicura e stabile, quella del Padre, il cui volto è ormai lo specchio nel quale possiamo imparare a scrutare tutti i nostri lineamenti, per essere capaci di accogliere ugualmente anche quelli dei nostri fratelli.


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