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Commento al Vangelo del 6 maggio 2025

Commento al Vangelo del 6 maggio 2025

Non Mosè, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 6,30-35

In quel tempo, la folla disse a Gesù: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: "Diede loro da mangiare un pane dal cielo"».
Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».
Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

Parola del Signore.

Farci pane

Roberto Pasolini

Per convertirci ai profumi e ai doni della Pasqua, che il Risorto vuole infondere nella nostra umanità attraverso il suo amore sponsale, dobbiamo diventare capaci di entrare in un atteggiamento contemplativo nei suoi confronti, varcando le porte di una visione della realtà illuminata dalla parola del vangelo e infiammata dall’amore dello Spirito Santo versato nei nostri cuori. A questo tipo di sguardo penetrante sembra capace di giungere il diacono Stefano, proprio nel momento in cui la sua storia si trasforma in una dolorosa passione a causa del Regno di Dio:

«Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio» (At 7,56).

È interessante notare che il momento in cui i cieli si spalancano per Stefano coincide con il momento in cui la sua parabola esistenziale è diventata conforme a quella di Cristo, non tanto per una somiglianza nella sofferenza, quanto per una partecipazione allo stesso abisso di compassione e carità verso gli altri. Parole come quelle che escono dalle labbra del primo diacono, nell’istante in cui l’odio dei nemici lo costringe alla più umiliante delle sconfitte, non si possono certo improvvisare. Solo un cuore abitato dalla carità di Dio si scopre capace di non rendere male per male e di perdonare senza condizioni: «Poi (Stefano) piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”» (7,60).
Nel racconto evangelico di Giovanni, dopo la condivisione dei pani e dei pesci, la folla dei discepoli di Gesù viene descritta ancora bisognosa di segni e conferme, prima di poter acconsentire con sincerità di cuore all’esigente logica del Vangelo:

«Quale segno dunque tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai?» (Gv 6,30).

Dietro al bisogno di ottenere – sempre – nuove conferme prima di potersi coinvolgere personalmente con le esigenze della sequela, il cuore del discepolo nasconde una velenosa pretesa: quella di continuare a ricevere altro pane, anziché accettare la responsabilità di poterlo diventare per gli altri.
Potremmo definirla quell’ordinaria «resistenza allo Spirito Santo» che rende anche noi così «testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie» (At 7,51) nelle alterne vicende della vita da non saper leggere i momenti di prova e di sofferenza come occasioni per autenticare la nostra vita in Cristo e onorare il significato e «la grazia del nostro battesimo» (cf. Colletta). Dichiarando la propria identità e il senso della propria missione, il Signore Gesù prova a restituire ciascuno di noi all’universale opera di Dio:

«Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6,33).

Accogliere il pane di Dio non vuol dire estinguere i morsi di quella fame che ci abita e, talvolta, ci costringe a mendicare briciole di attenzione e di conferma prima di compiere atti d’amore. Ricevere nella libertà quel pane di Dio che discende dal cielo significa discernere nel cuore della nostra umanità un appello a lasciarci trasformare nell’immagine di carità che esso significa. La grande opera che Dio vuole compiere – in noi e in tutti – non è l’estinzione della nostra umanità con tutti i suoi limiti, ma la sua definitiva trasformazione nell’immagine del Figlio, capace di donarsi perché capace di riceversi come dono del Padre.
Se accogliamo il pane di Dio, non possiamo che acconsentire alla più irreversibile delle trasformazioni, fino a diventare quello che vogliamo ricevere, facendoci pane per gli altri. Non nella forma e nei tempi che noi vorremmo definire – e controllare – ma come e quando la provvidenza di Dio ce ne darà occasione:

«E lapidavano Stefano, che pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”» (At 7,59).

Affidare la propria vita nelle mani del Figlio, affinché la accolga e la presenti al Padre, è l’atto di fede con cui il mistero della Pasqua si compie in noi e si offre come testimonianza d’amore al mondo perché possa benedire quel Signore «che per me ha fatto meraviglie di grazia» (Sal 30,22).

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