Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 15,12-17
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Parola del Signore.
Per mano
Roberto Pasolini

Anche se Giovanni non ha descritto quale effetto hanno sortito nei discepoli le parole di intimità rivolte loro dal Signore Gesù, possiamo ben immaginare che sia avvenuto qualcosa di simile a quanto hanno sperimentato «i fratelli di Antiòchia», quando hanno ricevuto lo scritto proveniente da Gerusalemme, quale frutto del primo grande confronto che la Chiesa ha dovuto affrontare per rimanere fedele alla grazia del vangelo.
Quando l’ebbero letta, si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva (At 15,10-11).
Del resto come non rallegrarsi, e come non ritrovare fiducia e coraggio, quando Dio si mette in dialogo con noi per esplicitare con le parole — spesso così necessarie — quello che ci ha già mostrato e donato con la vita?
«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
I discepoli sono stati condotti dentro una grande intimità con il Signore Gesù, tale da poter diventare partecipi della sua relazione con il Padre. Il sentimento di gioia davanti a questa rivelazione di amicizia viene confermato e, in qualche modo, rilanciato da una parola, limpida e calda come un atto d’amore. Che suscita e chiede altro amore.
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Un’esperienza simile si realizzò nel “primo concilio” della storia, quando la comunità cristiana si trovò a dover decidere come dilatare — senza diluire — la forza e la libertà del vangelo, nel momento in cui lo Spirito Santo iniziava a operare oltre i confini visibili della chiesa nascente. In quella circostanza non sembrò sufficiente mettere per iscritto la decisione di non imporre alcun obbligo ai neofiti provenienti dal mondo pagano. Sembrò invece buono — anzi necessario — «scrivere per mano» (cf. At 15,23) di due persone, incaricate di incoraggiare con la loro presenza la comprensione e l’accoglienza della lettera. In una società sempre più “smart” e “touch”, in una comunicazione sempre più post-paper, questo stile non dovrebbe mai essere estraneo al modo di fare dei cristiani, come tutti gli altri sempre tentati di parlare senza esserci fino in fondo. Oppure di esserci, senza però regalare la gioia di una parola amica. Tentati, cioè, di non essere quello che siamo: «una lettera di Cristo», scritta «con lo Spirito del Dio vivente» (2 Cor 3,2).