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Non vedo frutti!

Non vedo frutti! Quando la vita sembra sterile

Non vedo frutti! Quando la vita sembra sterile

Commento al Vangelo di domenica 23 marzo 2025

Terza domenica di Quaresima – anno C

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 13,1-9
 
In quel tempo, si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

Parola del Signore.

«Allora dov’è il male,
da dove e per dove è penetrato qui dentro?
Qual è la sua radice, quale il suo seme?»

Sant’Agostino, Confessioni, VII,v,7

Quando ci sentiamo attaccati ingiustamente, quando la vita ci costringe a stare davanti alla sofferenza, quando siamo vittime della cattiveria umana o quando ci interroghiamo davanti al dolore innocente, ci ritroviamo improvvisamente a fare i conti con l’interrogativo più drammatico dell’esistenza umana: da dove viene il male? Perché nella mia vita? Perché proprio a me?

Davanti a questa domanda, il popolo d’Israele aveva levato un grido, mentre era schiavo in Egitto, un grido che non sapeva neppure a chi rivolgere esattamente. È il grido di chi è esasperato sotto il peso di un male ingiusto. Qualcuno però raccoglie quel grido. Quel popolo appartiene a Dio, come a Dio appartiene la vita di ogni uomo. Dio non resta mai sordo davanti al nostro lamento.

Dio confida a Mosè di aver ascoltato quel grido (Es 3,7). Per questo, come ogni padre che sente il lamento di suo figlio, Dio non può non scendere per liberarlo dal male che lo attanaglia. L’azione di Dio non è magica o indolore: il testo dice che Dio scende per strappare con forza il popolo al suo male.

Il nome stesso di Dio è una rassicurazione circa la sua presenza: Dio si presenta come colui che sta nella storia (Es 3.6), è il Dio di tuo padre, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe…e continua a essere padre dell’umanità. È un Dio che accompagna le vicende delle generazioni. Non è semplicemente colui che è, come un essere astratto e lontano. Sarebbe meglio tradurre che egli è colui che c’è. È presente in ogni istante della nostra esistenza. Questa è la sua risposta allo scandalo del male: Io ci sono e attraverso con te questo male!

Ma c’è un’esperienza del male che risuona in maniera forse ancor più drammatica: è il male che incontriamo dentro di noi, quando scendiamo nei nostri abissi (o sarebbe meglio dire scivoliamo in essi) e la vita ci costringe a guardare i nostri mostri interiori, il male che ci portiamo dentro.

È il male oscuro, la perdita di senso, la violenza gratuita contro sé e contro la vita, l’indifferenza, il rifiuto del mondo. Il male prende forme a cui neppure noi siamo capaci di dare un nome.

Come le persone che interrogano Gesù in questo testo del Vangelo, così anche noi siamo più propensi a cercare fuori di noi il senso del male, ci avventiamo con violenza contro la degenerazione inspiegabile del mondo, contro la cattiveria umana (Pilato aveva massacrato alcuni Galilei) o contro l’irrazionalità della natura (il crollo di una torre), ma siamo molto più prudenti quando si tratta di interrogare il senso del male che noi stessi ci portiamo dentro. Eppure è proprio il male che ci abita dentro che ci porta alla morte eterna, è il male che ci scaraventa nel vuoto interiore che non finisce mai.

Gesù parte da questi avvenimenti di morte per parlare di un’altra morte. Se è vero che non è stato il peccato a causare la tragedia del gruppo di Galilei o delle persone morte nel crollo della torre, è però il peccato (il male che ci abita) a impedirci di trovare la vita. È questo il male contro cui dobbiamo lottare.

Il male che ci portiamo dentro toglie vita, ci rende sterili, ci riduce come il fico che era stato piantato nella vigna e che non dà più frutti.

Nella Bibbia la vigna è spesso l’immagine di Israele (Sal 79; Ct 8,11), ma proprio per questo è anche l’immagine della vita donata a ogni figlio di Dio. In questa vigna, Dio ha piantato un fico, simbolo della Legge donata al popolo di Israele, e dunque a ogni uomo. Ora, questa Legge piantata nel nostro cuore non porta più frutto. La Legge è la Parola che il seminatore ha gettato in noi, ma che noi continuiamo a soffocare: sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero.

Gesù non si stanca di venire a cercare frutti di bene nella nostra vita. I tre anni sono una possibile allusione al suo ministero, così come quell’anno in più che il vignaiolo-Gesù chiede al Padrone della Vigna è l’anno di grazia che Gesù aveva annunciato nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,19).

Noi abitiamo in questo dialogo tra il dono del Padre che ha piantato la vigna e l’azione del Figlio che con pazienza si prende cura dell’albero, zappando e concimando. Il desiderio di Dio è che la nostra vita possa fiorire. Quando? Non si sa: vedremo se porterà frutti per l’avvenire. Il vignaiolo aveva chiesto un anno, il padrone della vigna concede una vita intera.

  • Quale nome sei capace di dare al male che ti abita?
  • Quali percorsi di conversione possono permettere alla tua vita di fiorire?
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